I diamanti acquistati tramite la banca sono senz’altro, a pieno titolo, contratti di investimento. Si tratta infatti di operazioni assolutamente fungibili con l’acquisto di titoli veicolate nel medesimo modo, prospettate come alternative a tale acquisto e poste in essere al e poste in essere al medesimo scopo di messa a frutto del risparmio o di collocazione di capitali.
Questo è il principio alla base della decisione del tribunale di Lucca alla base della sentenza n. 1674/2019 depositata il 22 novembre che ha condannato Banco BPM a risarcire il cliente di una somma pari alla differenza fra il prezzo di acquisto e il valore effettivo, stimato sulla base dei parametri riportati sui listini rapaport.
La causa riguarda l’acquisto di un solo diamante, acquistato da un pensionato nel 2013, tramite gli sportelli di quella che all’epoca era la Cassa di Risparmio di Lucca Pisa Livorno, oggi Banco BPM SpA.
Al pari di tutti gli altri clienti coinvolti nel meccanismo messo in atto da IDB, aveva ricevuto un diamante che valeva meno di un quarto del prezzo pagato.
Visto il fallimento di IDB, non restava altro al cliente che chiamare in giudizio Banco BPM, con l’assistenza dall’Ufficio legale di AECI Firenze.
Il Tribunale ha definito inverosimile la tesi della banca secondo cui essa si sarebbe limitata ad una mera segnalazione. In realtà – prosegue il giudice – è del tutto evidente che, in relazione all’acquisto dei diamanti, la banca svolgeva esattamente il medesimo ruolo svolto in relazione a qualunque altra forma di investimento, vale a dire quello di termine di riferimento del cliente, al fine di orientare le scelte di quest’ultimo.
La sentenza si sofferma anche ad esaminare l’aspetto principale del meccanismo di IDB, vale a dire la formazione unilaterale del prezzo, presentata ai clienti come prezzo di mercato attraverso, grafici articoli del sole 24 ore e tabelle di rendimento. Secondo il giudice la non esplicitata fissazione unilaterale del prezzo dà vita ad un rischio aggiuntivo, rispetto a quello insito in qualunque forma di investimento e segnatamente dell’acquisto di azioni, rischio altissimo e del quale l’acquirente non è in grado di rendersi conto, vale a dire quello del crollo del mercato – non per nulla puntualmente verificatosi – una volta che tale modalità di fissazione del prezzo venga conosciuta.
In pratica, conferma il giudice, il meccanismo di formazione unilaterale del prezzo, a differenza del prezzo frutto dello spontaneo andamento del mercato, mette in campo la componente psicologica, alimentata dalle reticenti o suggestive modalità di presentazione del prodotto.
Sicché, l’investimento aveva in sé un rischio aggiuntivo, rispetto ad un normale investimento, perché, in un contesto di questo tipo, “al di là della normale alea, consistente nella possibile diminuzione del valore del bene acquistato, era fatalmente insita anche quella, altissima, del crollo del mercato, uno volta scoperta la realtà del fenomeno. Rischio aggiuntivo del quale, come parimenti detto, l’investitore, proprio in ragione delle suddette modalità di presentazione del prodotto, non era in grado di rendersi conto.”
Esaminato tutto il meccanismo, la sentenza conclude che non v’è dunque dubbio che sussiste, in capo alla banca, un profilo di inadempimento al proprio obbligo di fornire al cliente un’informazione corretta e completa in merito all’investimento proposto, e per questo condanna a risarcire il cliente della differenza.